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All Message Boards : ...................dove muoiono gli uomini e i giganti........
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From: MSN Nicknameultimometrò2000  (Original Message)Sent: 10/20/2008 1:01 PM
Ho attraversato la road n° 1 e la ferrovia. Entrambi collegano Chittagong, la seconda città del Bangladesch, con il nord del Paese. Le due vie di comunicazione rappresentano una sorta di confine che delimita un passaggio quasi improvviso dalla realtà della città, che cerca faticosamente di procedere verso la modernità, e il ritorno alle più terribili forme di sfruttamento che si possono immaginare. Il litorale che si estende ai miei occhi è costituito da un'enorme distesa che si affaccia sul lato orientale del Golfo del Bengala. Il mischiarsi dell'oceano con le acque dolci del Padma, che ha il suo immenso delta a nord-ovest, garantiva in passato una copiosissima pescosità e il conseguente mantenimento di migliaia di famiglie.
Oggi non è più così. Ogni anno, in questa parte del golfo,
vengono smantellate dozzine di navi. Su questa distesa, che ormai è impossibile definire spiaggia, con l'alta marea, bastimenti di ogni provenienza e dimensione vengono indirizzati a tutta forza verso un punto definito, e poi, grazie alla velocità e alla potenza, vanno ad arenarsi restando con gran parte dello scafo fuori dall'acqua. Vedo decine di giganti del mare, alti come palazzi, che mostrano i segni del degrado che li ha resi inutili. Alcuni, visti da lontano, sembrano ancora integri, di altri, invece, restano solo carcasse grottesche. Scheletri mastodontici che entro pochi giorni, una volta tagliati a pezzi, spariranno per sempre lasciando solo delle profonde orme di cui, grazie al flusso delle maree, presto non rimarrà alcuna traccia. Montagne di metallo, corrose dalla salsedine e dall'usura, che portano i nomi più disparati in tutte le lingue del mondo. Ci sono sterminate petroliere, navi cisterna, probabilmente adibite al trasporto di prodotti chimici o di cereali, porta-container, e anche i resti di una nave da crociera di cui si intuisce ancora la linea elegante. Intorno a questi decrepiti monumenti della navigazione ci sono loro, a centinaia, forse a migliaia. Sembrano formiche all'opera sulle carcasse di grandi animali. Lavorano all'interno di un apparente disordine, ma bastano pochi minuti per capire che non è affatto così. Ogni relitto è attorniato da una moltitudine propria che, in parte, si dipana in lunghe file di uomini che risalgono la spiaggia trascinando di tutto, e incrociandosi con altri che tornano ad alimentare un processo continuo che vive al servizio di una sola e ben precisa filosofia: smantellare nel minor tempo possibile recuperando tutto, fino alla più piccola componente. Mi colpisce constatare che non c'è traccia di nessun mezzo meccanico, e che quindi, anche se può sembrare incredibile, tutto avviene avvalendosi solo ed esclusivamente della forza umana. Scendo il crinale per avvicinarmi ad un'enorme petroliera ancora integra. Mi dicono che è stata portata a morire all'alba, solo poche ore fa. Mentre procedo, il terreno diventa sempre più molle e appiccicoso, e quando sono in prossimità del relitto, ormai, ad ogni passo sprofondo sempre di più. Quando riesco a liberare un piede per andare avanti, mi accorgo che l'orma profonda lasciata dal mio stivale di gomma si colma di una poltiglia scura e oleosa che si nasconde sotto la superficie. L'acqua, come del resto ciò che resta del manto apparentemente sabbioso, mostra un colore rossastro, a tratti violaceo, che richiama quello della ruggine. Lo stesso colore è predominante su tutto l'arenile, fino a dove arriva lo sguardo. Stanno cercando di aprire il ventre certamente velenoso dello scafo che porta un nome espresso in incomprensibili caratteri cirillici, mentre sul suo ponte smisurato decine di uomini hanno già incominciato a smontare tutto il possibile. Al momento non possono usare la fiamma ossidrica perché le  cisterne sono certamente sature di gas, e allora, qualcuno, usando semplicemente martello e scalpello, è riuscito faticosamente ad aprire una fessura tra le congiunzioni delle spesse lamiere della fiancata. Ora, in una dozzina, affondati fino alla cintola, stanno facendo leva con un enorme piede di porco per aprire un primo squarcio nello scafo. Questo è un momento molto pericoloso perché basterebbe una scintilla, provocata dall'attrito tra i metalli, per innescare un'esplosione dalle conseguenze difficilmente prevedibili. Lavorano in queste condizioni per dieci o dodici ore al giorno, e a volte anche più. Nessuno di loro possiede stivali, elmetti, guanti, o coperture adatte per un lavoro così massacrante che si svolge a contatto con elementi altamente tossici. Stanno praticamente nudi, a parte qualche stracciato e lurido indumento che cinge la vita, in questa sorta di cloaca chimica, immergendosi a volte fino al torace nell'acqua torbida e puzzolente, e tutto questo per una paga giornaliera che è pari, all'incirca, al valore di un euro. Ad una trentina di metri un'altra enorme balena metallica giace appena piegata sul fianco. A questa, ormai, dopo qualche giorno di lavoro, hanno aperto grandi squarci sui fianchi. Altra squadre, composte da povere figure, stanno vivendo il loro inferno terreno. In quattro file, due per lato, si incrociano in un indicibile moto contrario. Sono i dannati che svuotano gli immensi serbatoi dai sedimenti lasciati dai milioni di tonnellate di petrolio che la nave ha trasportato nel corso della sua vita. Arrivano, uno alla volta, fino ad una breccia. Uno di loro, che come protezione si porta solo un panno annodato in qualche modo sulla bocca, aggancia velocemente un bidone ad una corda, e poi, con consumata maestria, lo lancia nell'interno buio e fetido dello scafo. Quando lo recupera il recipiente è colmo di un composto nero, appiccicoso, denso. Ogni dannato si porta due pesanti contenitori appesi ad un'asta che appoggia sulle spalle martoriate, e inizia così una penosa risalita, sprofondando ad ogni passo, verso un punto di raccolta che deve essere situato da qualche parte, oltre le dune. Non hanno più nulla di umano questi poveretti. I loro visi, le braccia, il tronco, sono letteralmente ricoperti da quella nauseante materia scura che è rigata solo dalle grosse gocce di sudore che scendono dalle facce sofferenti e rassegnate. Non so dove possono trovare la forza necessaria per andare avanti  per poi tornate a prendersi un altro carico. Una forza che consente loro di fendere questo limo velenoso che imprigiona gli arti inferiori rendendo estremamente penoso ogni movimento. Eppure, bidone dopo bidone, continuano con disperata ostinazione, figlia della miseria, a dare vita a questa terribile processione fino a quando un altro turno di esseri sfortunati non prenderà il loro posto, perché, qui, si soffre e si muore, di colpo o lentamente, per 24 ore al giorno, tutti i giorni, senza fermarsi mai. Cisterne lunghe quanto due campi di calcio, e forse più, vengono svuotate così, fino all'ultima goccia, dai residui pestiferi che contengono. Su questa nave, grazie alle aperture che stanno continuando ad aprire nelle fiancate, il pericolo dei gas è probabilmente scongiurato, e quindi, avvalendosi di grosse bombole appoggiate su piattaforme di legno, la demolizione procede  spedita grazie all'uso delle fiamme ossidriche che permettono di tagliare grossi pezzi di lamiera. Quando le pesanti porzioni crollano, altre dozzine di uomini le legano con grosse corde per poi trascinarle, sempre a forza di braccia, verso una destinazione che è indicata dai profondi solchi riconoscibili dove il terreno diventa più consistente. Anche nell'interno dello scafo, certamente anche loro massacrati da questo caldo umido ed insopportabile, altre decine di uomini stanno lavorando. Nulla viene lasciato al caso, e tutto, come se si seguissero le misteriose indicazioni di una perfida regia occulta, viene minuziosamente smontato per essere venduto, riciclato o fuso. Il materiale recuperato, secondo parametri certamente consolidati, possiede un valore diverso, e tale valore determina la sua successiva collocazione. Alla periferia ovest della città, stamattina, ho visto una grandissima distesa di oggetti diversi che ha sollecitato la mia curiosità, e solo ora comprendo da dove provengono. Mobili, water, lampade, stoviglie ecc ecc, la parte del recupero ritenuta meno remunerativa finisce in quella specie di gran bazar dove affluiscono compratori e mercanti da tutta l'area circostante, e anche dall'interno. Anche i ragazzini, qui vittime innocenti del profitto come altrove, partecipano con compiti ben precisi a questo disumano esercizio di demolizione. Sono loro che, grazie agli esili corpi, possono intrufolarsi negli anfratti bui ed oleosi dei grandi motori marini per agevolare il perfetto smontaggio delle enormi componenti che verranno poi spedite, su ordinazione, ai cantieri navali di tutto il mondo per essere usate, come in una sorta di cannibalismo, per riparazioni che altrimenti sarebbero costosissime. Il nostro interprete, ridendo, dice che per i proprietari di questa specie di cimitero del mare, un relitto è come un maiale per noi occidentali: " non si butta via niente". Non ho nessuna voglia di ridere, ma anzi, gli darei un calcio nei coglioni pensando a chissà quanti piccoli corpi sono rimasti schiacciati da qualche meccanismo ritenuto a torto ormai statico, o soffocati da venefiche esalazioni. Mi allontano da questa specie di girone dantesco seguendo una delle colonne composte dagli stremati trascinatori di lamiere. C'è qualcosa di diabolico nella loro pena di sopravvivere. Stupidamente pensavo che la maggior parte della loro fatica si consumasse nel tratto melmoso, ma invece mi accorgo che quando il terreno diventa più solido, inizia una specie di salita che in queste condizioni deve essere altrettanto tremenda da affrontare. La loro meta è una delle fonderie dove lavorano "quelli che ballano con i serpenti di fuoco". Solo qualcuno di loro indossa delle calzature, gli altri, la maggior parte, anche se faccio fatica a credere ai miei occhi, sono completamente scalzi. Quando dai forni escono velocissime le barre roventi, questi poveretti, usando strumenti simili a delle lance, e balzando da una parte all'altra, come se seguissero un'ignobile coreografia, indirizzano i rettili incandescenti verso il compagno successivo, e così via, fino al luogo dove il ferro rigenerato passa alla lavorazione che conclude il ciclo. Basterebbe un errore o solo un attimo di distrazione da parte di chi, pochi metri in fianco, cerca di gestire la barra che scorre in parallelo, e davvero non oso immaginare quali potrebbero essere le possibili conseguenze. Le conseguenze, però, purtroppo per loro, in parte le sto vedendo ora mentre procedo verso la grande baraccopoli che rappresenta uno dei percorsi alternativi sulla strada del ritorno. Malgrado tutte le cose a cui ho assistito, sono così addolorato, confuso ed incredulo per quanto sto vedendo, che al momento non riesco nemmeno a quantificare il loro numero. A qualcuno manca un piede, altri hanno le gambe recise sotto le ginocchia, e altri ancora sono messi anche peggio. Sono una moltitudine sistemata in un profondo avvallamento, come se loro stessi avessero scelto di celare le proprie amputazioni rinchiudendosi in una sorta di comprensibile pudore. Stanno accasciati o seduti su piccole stuoie, ma anche nella loro situazione, che in questo contesto appare ancora più angosciante, continuano a far parte di questo perfido processo che produce la pena per tanti e la ricchezza per pochi. Affondano le mani in grandi sacche, e poi le loro dita esperte dividono velocemente viti, bulloni e chiodi, secondo la grandezza e la tipologia dei materiali di cui sono composti. Anche i tasselli di gomma o di plastica, se pur ormai deformati, vengono divisi e gettati in apposite ceste. Finiscono qui gli uomini che hanno ballato con i serpenti di fuoco. Quelli che non sono morti intendo. Sto arrivando tra le baracche dove vivono tanti di questi innocenti dannati con le loro famiglie. Mentre il sole sta calando all'orizzonte  ancora terso, cupe nubi hanno coperto il cielo. Nuvole che come entità annoiate passano indifferenti sul procedere di questo tempo speso senza alcuna speranza. La luce particolare del tramonto, così calda, colpisce di taglio ogni cosa e rende ancora più rossastro lo scenario irreale e inquietante della spiaggia dove i mostruosi relitti trovano la loro fine. Nemmeno con l'approssimarsi della sera, l'afa insopportabile, umida e pesante, lascia il posto al sollievo di un poco di brezza ristoratrice. Qualcuno che probabilmente ho visto soffrire sull'immonda spiaggia è tornato, altri stanno ancora arrancando mentre risalgono tra i miseri vicoli. Un nuovo turno di disgraziati ha preso il loro posto in questa perpetua "via crucis". Allo stesso tempo, bambini piccolissimi e donne di tutte le età, stanno anche loro arrivando alle baracche portando dell'acqua con tutti i recipienti immaginabili. Anche la loro appare come una fatica immane, perché si percepisce che ne stanno portando il più possibile, come se non dovesse bastare mai. Poi, guardando verso la soglia a me più vicina, comprendo il perché di tutto questo, e allora, anche se ateo, rivivo il profondo significato universale che è racchiuso nella Pietà di Michelangelo. E' una deposizione quella a cui assisto. Quella donna che tiene sul grembo un corpo appena disceso dalla sua quotidiana "crocifissione", aggredito dallo sterco del progresso, e usando miseri panni e con quell'acqua portata con tanta fatica, amorevolmente e con gesti gentili, cerca di detergere insieme la fatica, il dolore e i veleni, rappresenta un'immagine di una bellezza purissima e insopportabile che sollecita in me, allo stesso tempo, commozione, rabbia e disperazione. Di fronte a questo momento di calma misericordia, piccola e dolcissima parte nel ritmo straziante di terribili esistenze, all'improvviso, vorrei avere la mente piatta di una squallida velina, per essere quindi incapace di pensare e di capire. All'ombra delle imponenti immagini degli Dei, di qualche Dio, o di altre convinzioni umane, ci ritroviamo a consumare il nostro tempo in modi diversi, ma, alla fine, tutto è determinato dal timbro a volte beffardo del fato che, aldilà della nostra consapevolezza, concede o meno di nascere e di esistere nel mondo degli sfruttati o nel mondo degli sfruttatori. Come mi è accaduto altre volte, anche oggi, in questo contesto, torno ancora una volta a sentirmi schiacciato da una impotente e profonda tristezza, inseguito dalle ruvide ombre dei rimorsi compagni di strada della vergogna sollecitata dalla mia casuale collocazione così diversa e così fortunata. Ripenso ai mesi passati a far "marchette" nel mio Paese, per certi versi così rassicurante nella realtà occidentale a cui appartiene, e poi a quella voglia, ogni volta inspiegabile quanto improvvisa, che mi spinge a ripartire di nuovo, e che contrasta, allo stesso tempo, con la consapevolezza di dover lasciare per lunghi periodi amicizie, affetti, e una vita che dal mio punto di vista considero abbastanza "normale". Ma forse è proprio da quella normalità, che un poco alla volta ricopre di una scorza anestetica la memoria, che ogni tanto devo fuggire, perché, appena sotto la superficie, appena sotto la vernice incantata che è capace di assopire, come un virus testardo che non vuole morire, sopravvive e poi rinasce la stessa fatale voglia di capire e di vedere le cose da prospettive diverse, una curiosità troppo spesso così dolorosa da soddisfare. Nella sofferenza, anche in questa sofferenza, di cui oggi ho colto solo qualche aspetto, cambia qualcosa negli occhi di chi vi è coinvolto a vario titolo. Probabilmente è banale dirlo, ma è così. In realtà, sempre, a farmi pensare non sono mai state le cose che i sofferenti potrebbero aver perso nello sguardo, quanto ciò che invece hanno acquistato. Il passaggio del male imprime negli occhi un segno indelebile che rimane riconoscibile. E lo rivedo ogni tanto, quando appunto mi sveglio da quella specie di torpore, e allora, puntualmente, arriva un'altra resa dei conti, e quando spezzo un ramoscello dalla realtà del mio mestiere per esaminarlo, mi accorgo che onestamente non posso nascondermi la stretta e scomoda relazione che ogni volta vive tra me, i carnefici e le vittime. Se chiudo gli occhi e mi guardo dentro, scopro di essere in ibrido che fa parte di un ignobile gioco triangolare, un incrocio bastardo che mi pone nella condizione "terza" di chi, che gli piaccia o meno, è relegato al compito di narrare la "commedia" dal vivo, senza poter intervenire in un nauseante e immutabile copione già scritto. Quando metaforicamente riapro gli occhi, di conseguenza, vedo nello specchio ideale della mia coscienza qualcun altro, appunto con un altro sguardo, qualcuno più vecchio, avvilito, bisognoso forse di ben altra saggezza. Sono dieci, venti, o chissà quante ora le deposizioni intorno a me, mentre dai tetti precari il ritmo crescente delle gocce tiepide e pesanti si diffonde intorno. Resto immobile lasciando che la pioggia mi bagni, come se in qualche modo potesse lavare la mia coscienza appesantita e sprofondata in questa acida realtà popolata da rassegnati fantasmi. Ora non sono più solo in mezzo al vicolo. Da sotto i traballanti ripari di lamiera e cartone sono usciti molti di questi disperati, e con loro le donne, i figli. Anche il primo che ho visto adesso è vicino a me a prendersi l'acqua che ora cade copiosa. Tiene le braccia aperte, con la mani rivolte verso l'alto. Sta guardando il cielo e mormora qualcosa di indecifrabile nella sua lingua per me sconosciuta. Il rigagnolo che si sta formando rapidamente, e che ingrossandosi scorre giù verso la livida spiaggia, è grasso e nerastro per le scorie avvelenate che il temporale ormai violento sta lavando via da tanti corpi stremati ed offesi. Non saprò mai se la sua cantilena rappresenta una preghiera volta a ringraziare il suo Dio per questa precipitazione purificatrice, o se invece è una maledizione, perché, domani, laggiù dove muoiono gli uomini e i giganti, con questa pioggia si sprofonderà ancora di più.


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 Message 2 of 4 in Discussion 
From: MSN Nickname2002contessaSent: 10/26/2008 7:17 AM
pelle d'oca...ecco che cosa m'è venuto

Reply
(1 recommendation so far) Message 3 of 4 in Discussion 
From: MSN NicknamebbmagnoliaSent: 10/26/2008 9:34 PM
caro ultimometrò, come ogni volta sai farci vedere le cose
attarverso il tuo cannocchiale e non è possibile più, dopo,
ignorare quanto insieme a te andiamo scoprendo, così
anche a me vengono quei dubbi, quei pensieri che mi fanno
sentire a cavallo senza trovare nella coscienza
"un punto di gravità permanente"
Sea Angel
 

Reply
(2 recommendations so far) Message 4 of 4 in Discussion 
From: MSN Nicknamekatietta-64Sent: 11/2/2008 1:21 AM
Caro ultimetrò,
è sempre un piacere leggerti.
Ogni volta sai portare con te nei tuoi viaggi con la tua capacità di raccontare.
Mai noiosa, mai arida, perchè sa affondare la penna, lo sguardo e il cuore nelle sofferenze altrui. Sa cogliere le sfumature, i dettagli. Sa pungere le coscienze, senza arroganze nè pretese, ma neppure stando in silenzio
Grazie per non rimanere mai indifferente, per quei "calci nei coglioni" che vorresti dare a chi, al contrario, per superficialità o per una sorta di corazza, si abitua e ride.
Grazie anche per quella immagine della Pietà di Michelangelo che è nata in te. Ti definirai pure ateo, ma chi sa stendere uno sguardo d'amore sugli altri con l'umilità del tuo narrare e vivere non è lontano da Dio.
Grazie per la tua "sete" di viaggiare e la ricchezza, seppur dolorosa, che porti ogni volta anche a chi, come me, legge seduta comodamente davanti ad un pc. Mai ridendo però.
 
 

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