All’inizio del�?2, quando siamo arrivati in Bosnia, c’era ormai quella situazione confusa e tragicamente surreale che si sarebbe protratta per gran parte della guerra. La definizione di un fronte, come in altre guerre, era spesso impossibile e allora, incontrando blocchi stradali o colonne armate, spesso composte da reparti paramilitari senza insegne certe, non si sapeva mai con chi si aveva a che fare, quindi, occorreva intuire in fretta qual’era il lasciapassare giusto da esibire, magari contornato con qualche marco tedesco che non guastava mai. Sapevamo comunque di non rischiare molto perché, in genere, tutti gli ufficiali delle forze contrapposte erano propensi a collaborare, soprattutto con gli operatori dell’informazione tedeschi e italiani, almeno in quel momento del conflitto. Stavamo spingendoci da Tuzla, verso est, incrociando lunghissime colonne di profughi che, in senso opposto, fuggivano dalla pulizia etnica che i serbi avevano iniziato nei loro territori. La visuale era punteggiata dal fumo di incendi lontani, segno che molti cascinali erano stati devastati dai combattimenti o altro. Le due auto dei colleghi, che ci precedevano, imboccarono una stradina deserta che puntava verso uno di quei probabili incendi. Ci siamo fermati sul margine della vasta aia di un casolare, avvolti dal fumo agre che proveniva da un portico in fiamme. Seduto sul cofano di uno dei mezzi militari che sbarravano l’area c’era Ahmet, o almeno mi pare di rammentare che si chiamasse così, un giovane ufficiale che avevamo conosciuto in un comando militare bosniaco qualche giorno prima. Avevamo passato la notte tutti insieme bevendo birra, fumando orrende sigarette e parlando di tutto, anche di calcio, visto che, chissà perché, tifava per l’Inter. Aveva lo sguardo spento e fisso nel vuoto e la cenere della sigaretta, che si consumava tra le sue labbra, senza che aspirasse nessuna boccata, gli cadeva sulla mimetica senza un suo gesto. Poi ci guardò, senza una reazione apparente, come ci vedesse per la prima volta e si alzò. Disse :"Venite con me e riprendete tutto" rassicurando i suoi soldati con un gesto della mano. Dietro un grande carro, ancora carico di fieno appena tagliato, c'erano i corpi senza vita di sette persone. Riprese a parlare con un tono carico di rabbia e, allo stesso tempo, quasi rotto dai singhiozzi:"Questa mattina un gruppo di porci serbi ha fatto terra bruciata in questa zona. Sapete che hanno fatto nelle fattorie vicine? Agli uomini hanno piantato a martellate dei bossoli nelle ginocchia e poi li hanno evirati. Li hanno lasciati appesi alle travi dei portici a dissagnuarsi e a gridare per ore. Le donne le hanno violentate. Quelle giovani le hanno lasciate in vita perchè si portino un piccolo bastardo serbo nella pancia. Quelle anziane le hanno ammazzate a colpi di vanga e quelle in attesa le hanno aperte per sbattere i feti contro il muro. I bambini li hanno ammazzati subito per fortuna, o almeno così pare." Ci indicò un uomo maturo tra i cadaveri. " Lui, quando ha visto arrivare i serbi, lontano sull'argine, ha raccolto la famiglia. Prima ha sparato alle tre figlie piccole e poi a quella più grande, che aspettava un bambino e quindi al genero. Forse ha guardato per l'ultima volta sua moglie e l'ha stretta a se prima di uccidere anche lei e poi, senza lasciarla si è messo la pistola in bocca ed ha premuto il grilletto e l'ha finita. I serbi non hanno torturato nessuno, non hanno potuto violentare nessuna donna o ragazza, lui lo ha impedito, capite questo? Quell'uomo era mio padre" Ci ha lasciati li senza aggiungere altro, oltre a quanto ci aveva raccontato, in quel suo italiano stentato ma così efficace e chiaro. Guardavo quel morto, che teneva ancora la sua donna per mano e, improvvisamente, ho pensato che, se solo qualche tempo prima, qualcuno mi avesse detto che non avrei provato un sentimento di sdegno e condanna, per una persona che aveva ammazzato tutta la sua famiglia prima di uccidersi, gli avrei detto che era pazzo. Ora invece ero confuso, senza trovare aggettivi, per spiegarmi o definire quella scelta. Penso che la domanda più terribile che si possa fare a chi ha vissuto quella vicenda sia: tu, al suo posto, che avresti fatto? Non so ancora oggi trovare una risposta perchè, forse, in quelle condizioni, ogni soluzione prevederebbe un coraggio che non posseggo e che spero di non dover cercare mai. Mi è rimasto solo un grande senso di pietà e forse anche di ammirazione. Quando ripenso a quel giorno, e mi succede spesso, mi convinco sempre di più che, alla fine, tutte quelle sedicenti certezze, tutti quei parametri, rassicuranti e solidi su cui costruiamo le nostre condanne, assoluzioni o, più semplicemente, opinioni, poi si scontrano con delle realtà che nemmeno possiamo immaginare e allora tutto va a farsi benedire, dogmi religiosi, questioni sofisticate e morali ecc ecc si, finisce tutto a quel paese e resta ,almeno per me, lo smarrimento, un grande smarrimento e basta.